
Ci sono almeno quattro capitoli sui
quali lavorare e ai quali ricondurre risorse, interventi ed iniziative su
precisi obiettivi riguardanti anche strutture ricettive, infrastrutture,
richiami per il turismo lecchese. Quattro carte da giocare in una partita che,
come si accennava affrontando lo stesso argomento nello scorso numero, può
essere decisiva per il futuro non solo della città e della sua provincia, ma di
tutto il comparto centro settentrionale della Lombardia, quello che, ce lo
insegna proprio la storia, dai tempi protostorici delle popolazioni ibero
liguri, svolge la funzione di cerniera tra la pianura e le montagne della
nostra regione.
La storia ci ha
consegnato un numero significativo di chiese romaniche disseminate intorno a
Lecco (San Pietro e San Benedetto sul monte di Civate, San Calocero in Civate,
il battistero di Oggiono, San Giorgio in Annone, Santi Nazaro e Celso in
Garbagnate Monastero, San Nicolò a Figina, Santo Stefano a Bulciaghetto, San
Salvatore a Barzanò, San Vito sempre a Barzanò, Santa Giustina a Casatenovo,
Santi Gottardo e Colombano ad Arlate, Sant’Alessandro a Cavonio, Santa
Margherita a Somadino, San Giorgio a Mandello, Santa Maria di Olcio, San Giorgio
in Varenna, San Giovani pure a Varenna, San Martino a Perledo, Santi Quirico e
Giulitta a Dervio, San Nicolò a Piona…): la loro ricerca e valorizzazione
prende spunto da quella luce di religiosità in cui il Manzoni colloca gli
edifici sacri. Non si ha quindi la pretesa di fare solo un discorso d’arte.
Molto più semplicemente si desidera riandare alle testimonianze di fede che i
nostri progenitori dell’età medioevale
ci hanno lasciato. Questi messaggi non sono soltanto di pietra; celati su un
monte, incorniciati tra le fronde dei castagni, proiettati sullo sfondo del
lago, questi templi, spesso modesti, ci recano il palpitare ancora vivo degli
ideali che mossero i costruttori, l’eco del salmodiare austero di monaci,
l’immagine di coloro che vi trassero in fidente orazione. Farà bene non solo
alla cultura ma anche al nostro spirito raccogliere quelle memorie che ci
giungono da tempi lontani.
In questa nostra terra lecchese, corsa
da mille eserciti, insanguinata da mille battaglie, castello è quasi sempre
sinonimo di apprestamento difensivo; e la torre ha soprattutto funzione di
avvistamento. Fu al principio dell’undicesimo secolo - narra Ignazio Cantù
nelle Vicende della Brianza e de’ paesi circonvicini - che
anche qui da noi le popolazioni «a capo di ogni villa, sul cocuzzolo d’ogni
collina, eressero fortificazioni, di molte delle quali scorgiamo ancora
vestigia». Non abbiamo, qui, costruzioni che le guide possano classificare importanti;
castelli e torri - la Viscontea a Lecco, la Torraccia e poi la
torre di Crebbio in Abbadia, e poi su fino a Vezio e Corenno Plinio, per poi
ridiscendere attraverso Introbio alla Rocca di Somasca dove la tradizione della
topografia manzoniana colloca il castello dell’innomiato, e poi Brivio e
Imbersago, Merate e Cernusco, Perego e Dolzago fino a Tregolo e Tabiago - delle
nostre parti hanno quasi un che di casereccio, di modesto, senza pretese.
Eppure quelle pietre scandiscono la storia, reliquie di un passato non
inglorioso della nostra gente. In questa luce, non con l’occhio freddo del
catalogatore, vogliamo guardarle.
Andar per ville è occasione per
cogliere elementi di bellezza che integrano una natura ancora oggi incantevole
pur avendone la mano dell’uomo fatto scempio, per riscoprire tesori d’arte, per
rievocare vicende e personaggi d’altri tempi. Dalla villa Manzoni al Caleotto
di Lecco si muove un itinerario che si snoda poi su per il lago dov’è la
Monastero di Varenna e tra le colline di Brianza, con ville innumerevoli -
vengono immediatamente in mente la Gnecchi di Verderio Superiore, la Lurani di
Cernusco, il Buttero di Olgiate Molgora, la Greppi di Monticello, la Subaglio
di Merate, la Belgioioso pure a Merate dove Alessandro Manzoni - rieccolo,
sempre lui, come non farne i conti - scolaretto nel collegio dei Somaschi si
racconta che vi nascondesse trappole per lepri, ingegnosamente costruite in
collaborazione con il piccolo amico Battista Pagani - quali gelosamente
celate alla vista, quali offerte all’ammirazione. Pennellate architettoniche,
tracciate dalle mani del Muraglia, del Pollak, del Richino, del Muttoni, del
Cantoni, del Cagnola, del Patroni, del Canonica, del Chierichetti. Un ritorno
alla vecchia Brianza, quella che, tra il sette e l’ottocento, diceva il Linati, «accolse uno dei panorami d’umanità
più intensa, di signorilità più garbata che in Italia si potesse vedere».
L’archeologia industriale, infine, in
un percorso che abbraccia miniere e tracce di forni fusori, trafile, ruote e
magli idraulici, filande e ferriere. Dove abbondano le testimonianze materiali
dell’uomo che valorizzano la grande storia di Lecco, quella del ferro e della
seta. Renzo era filatore di seta e Lucia anche lei setaiola. Non si scappa dal
Manzoni, neanche a volerlo.
In Fermo e Lucia, la prima
stesura del romanzo che sarebbe divenuto I Promessi Sposi, il
Manzoni si lasciava andare a un sia pur controllato sentimento di nostalgia per
l’«amenissimo piano che è posto al mezzogiorno del Monte Barro». Scriveva infatti: «La giacitura della riviera, i
contorni, e le viste lontane, tutto concorre a renderlo un paese che chiamerei
uno dei più belli del mondo, se avendovi passata una gran parte della infanzia
e della puerizia, e le vacanze autunnali della prima giovinezza, non
riflettessi che è impossibile dare un giudizio spassionato dei paesi a cui sono
associate le memorie di quegli anni». Questo brano è stato espunto nelle
successive redazioni del romanzo, così come la descrizione della vegetazione
(come si sa, il Manzoni era, in botanica, assai più che un dilettante):
carpini, faggi, qualche abete, sorbi, dafani, il cameceraso, il rododendro
ferrugigno, il pruno, il biancospino, il melagrano, il gelsomino, il lilac e il
filadelfo. E tuttavia nella famosa pagina iniziale - «Quel ramo del lago di
Como» - si sente in trasparenza il riverbero fascinoso di quello «sfondo
azzurro di acque e di montagne». Gli anni e le stagioni che Alessandro
trascorse in quel paesaggio quieto tra lago e costa, nella villa paterna del
Caleotto, furono i più sereni e felici della sua vita. In tutto il romanzo, la
vibrazione nostalgica si rinnova: la vista o il pensiero dei monti, dell’Adda,
del lago, della cresta dentata del Resegone accende d’affetto l’anima di Lucia,
di Renzo, di Agnese. I Promessi Sposi è sì una «storia
milanese»; ma il suo cuore segreto è nel territorio di Lecco.
Oso dire che Manzoni è, per i luoghi
cari al suo cuore, un eccellente propagandista turistico. Quando Renzo, alle
porte di Milano, «vide quella gran macchina del duomo sola sul piano, come se,
non di mezzo a una città, ma sorgesse in un deserto; e si fermò su due piedi,
dimenticando tutti i suoi guai, a contemplare anche da lontano quell’ottava
meraviglia, di cui aveva tanto
sentito parlare fin da bambino», egli anticipa mirabilmente lo stupore,
l’ammirazione, e la gratificazione gioiosa di un turista contemporaneo che
arriva in un luogo da tempo noto e desiderato.
Si può osservare che uno dei
motivi di modernità dei Promessi Sposi è che il romanzo è
“girato” per buona parte in “esterni”. Ma non è il caso di tirarla troppo per
le lunghe. Basta avere accennato a quanto viva fosse nel narratore l’attenzione
agli scenari paesistici e naturali. L’atlante manzoniano è sempre un atlante
dei sentimenti, ma non trascura lo scenario naturale, i colori della realtà.